Il Centro Culturale San Paolo di Genova organizza per Giovedì 20 aprile 2023 alle ore 17.30, presso la Chiesa dei Santi Cosma e Damiano, a Genova in piazza San Cosimo, nel Centro Storico, la presentazione del libro “NELLA VALLE DI GIOSAFAT.
Giustizia di Dio e giustizia degli uomini nella prima età moderna” di Guido Dall’Olio Carocci Editore
Il Prof. Don Paolo Fontana, direttore dell’Archivio Diocesano di Genova, dialoga con l’Autore Prof. Guido Dall’Olio
Prof. Guido Dall’Olio, Lei è autore del libro Nella valle di Giosafat. Giustizia di Dio e giustizia degli uomini nella prima età moderna edito da Carocci: quale singolare fenomeno caratterizza la giustizia della prima età moderna?
La mia ricerca è relativa a un uso attestato in varie parti d’Europa, ma in particolar modo in Germania, Svizzera e Italia nell’età moderna e durato addirittura fino ai primi decenni del Novecento. La persona che aveva subìto (o riteneva di aver subìto) un torto da un’altra, ma che per qualche motivo non poteva portare le sue ragioni di fronte a un tribunale, aveva la possibilità di citare il suo avversario a comparire nella valle di Giosafat, luogo in cui Dio esercitava la sua giustizia, superiore a quella degli uomini. Lì Dio avrebbe pronunciato il suo giudizio, riparando i torti commessi dagli uomini sulla terra. Dato che la valle di Giosafat si trova nell’aldilà (anche se, come vedremo, venne identificata anche con un luogo geografico preciso), la citazione può anche essere considerata come una forma di maledizione: se una persona ne citava un’altra a comparire di fronte a Dio entro trenta giorni, ciò significava che entro trenta giorni il citato sarebbe morto, cosa che sarebbe accaduta del resto anche a chi citava. Il richiamo alla giustizia di Dio può essere considerato infine anche come un appello nei casi in cui i tribunali terreni avessero commesso ingiustizie: Dio, infatti, vede tutto ciò che è nascosto, comprese le astuzie e gli inganni degli uomini, nonché la loro disposizione d’animo.
Come si sviluppa la tradizione relativa alla valle di Giosafat?
Non è chiarissimo come sia nata quest’usanza. Le credenze relative alla valle di Giosafat hanno una storia lunghissima, che risale a Gioele, il profeta dell’Antico Testamento, il quale aveva detto che alla fine dei tempi Dio avrebbe radunato gli uomini nella valle di Giosafat per giudicarli. In ebraico, l’espressione che corrisponde a “valle di Giosafat” (emeq Jehoshaphat) può significare anche, genericamente, “luogo in cui Dio giudica”. Essa tuttavia venne considerata da diversi interpreti come un luogo e addirittura, a partire dal IV secolo, identificata con la valle del Cedron, che separa Gerusalemme dal Monte degli Ulivi. I pellegrini che visitavano la Terra Santa nel Medioevo, quando si trovavano in quel luogo, erano convinti di vedere la valle dove si sarebbe celebrato il giudizio universale. Nell’uso delle citazioni prevaleva invece l’idea del giudizio rispetto alla determinazione geografica. La valle di Giosafat diventava così sinonimo di “giudizio di Dio”, che si esercitava però non alla fine dei tempi, bensì nel concreto della storia. Benché l’uso di appellarsi al tribunale divino sia già attestato fin dai primi secoli del cristianesimo, la citazione vera e propria, con un termine di scadenza e l’invito concreto a comparire davanti a Dio, si ritrova per la prima volta in un documento svizzero del XV secolo.
Va comunque precisato che le citazioni nella valle di Giosafat furono fortemente avversate da teologi e giuristi e condannate dai tribunali laici ed ecclesiastici, che a più riprese si occuparono di tale usanza nel corso dell’età moderna. Furono soprattutto i protestanti – sempre più radicali dei cattolici quando si trattava di combattere le “superstizioni” – a disapprovarle, mentre diversi teologi cattolici le ammettevano, benché soltanto a certe condizioni. Secondo molti autori, tuttavia, la minaccia del giudizio di Dio rappresentata dalle citazioni poteva essere un monito rivolto a giudici e governanti perché non abusassero del loro potere e non commettessero ingiustizie.
Quali caratteristiche avevano le citazioni nella valle di Giosafat e quali effetti producevano?
Qui bisogna distinguere tra due gruppi di documenti. Molte citazioni venivano pronunciate brevemente in forma orale, senza l’uso di particolari formule. Era questo il caso, piuttosto frequente, di coloro che si ritenevano condannati a morte ingiustamente e dal patibolo citavano il loro giudice a comparire davanti al tribunale di Dio. Le fonti che narrano questi episodi hanno spesso un carattere leggendario e riferiscono della morte del persecutore che sopraggiungeva puntualmente alla scadenza della citazione; un caso celeberrimo è quello dei cavalieri templari che, stando alle rielaborazioni di alcuni documenti, maledissero i loro persecutori, papa Clemente V e re Filippo IV di Francia, morti di lì a non molto. In altri casi, testimoniati finora quasi esclusivamente da un corpus documentario bergamasco risalente al XVI secolo, la citazione avveniva in forma scritta e riguardava soprattutto quelli che noi oggi chiameremmo “processi civili”, cioè liti per possesso di beni e simili. In questi documenti le formule sono molto elaborate e contengono un gran numero di citazioni dall’Antico e dal Nuovo Testamento, fornendoci così uno straordinario esempio di utilizzo di testi religiosi a scopo di maledizione (il linguaggio biblico, del resto, ha caratteristiche che lo rendono particolarmente adatto a quest’uso). Nei testi bergamaschi, tuttavia, chi citava lasciava la possibilità al suo avversario di pentirsi o di venire a un compromesso, che avrebbe così scongiurato il giudizio divino.
Una caratteristica importante di questi documenti, che nel volume vengono analizzati minutamente, è il loro presentarsi come testi dotati di valore legale: la loro struttura, infatti, è simile a quella della documentazione prodotta dalle cancellerie dei tribunali medievali e moderni. Essi, inoltre, venivano consegnati ai destinatari dagli ufficiali incaricati delle citazioni giudiziarie, pagati appositamente allo scopo.
Quanto agli effetti, essi non sono facili da individuare. Nei racconti leggendari e agiografici spesso la persona che veniva citata non prendeva sul serio le parole che gli venivano rivolte, salvo poi ricredersi, terrorizzata, quando la morte la raggiungeva. Nella realtà testimoniata dalla documentazione bergamasca, le citazioni dovettero provocare in chi le riceveva un certo timore. Dato che si trattava di una pratica espressamente proibita dalle autorità diocesane, chi veniva citato si recava quindi presso il tribunale vescovile, dove il giudice, sotto pena di scomunica, induceva il mittente della citazione a ritirarla. Questo, almeno, è ciò che si ricava dalla documentazione superstite: è possibile (e direi probabile) che in altri casi, che non hanno lasciato traccia, le citazioni riuscissero nel loro intento di costringere i destinatari a risarcire i citanti o a venire ad un compromesso con loro.
A citare nella valle di Giosafat i responsabili delle proprie disgrazie non furono soltanto i vivi: in che modo i condannati a morte, e addirittura i morti stessi, convocavano i loro persecutori di fronte al tribunale divino?
Naturalmente anche in questo caso si tratta di leggende, diffuse soprattutto in area svizzera e tedesca a partire almeno dal Cinquecento, ma ancora tramandate in forma orale all’inizio del XX secolo. Semplificando un po’, possiamo dire che in esse si racconta del cadavere di un impiccato che, dileggiato da un giovane scapestrato, si rianima e lo cita a comparire nella valle di Giosafat. In alcuni casi si racconta anche di come il giovane fosse riuscito a sfuggire alla citazione, ossia incaricando l’anima di un bambino morto subito dopo il battesimo di presentarsi al suo posto. Anche in queste leggende, la protagonista è la giustizia di Dio, alla quale gli uomini non devono sostituirsi. Quando il delinquente è stato condannato, la giustizia umana ha ormai fatto il suo corso e l’anima dell’impiccato si trova di fronte a Dio. Dileggiare o rimproverare il morto sulla forca significa usurpare un giudizio che spetta solo all’Onnipotente, che oltretutto può anche rovesciare il verdetto degli uomini e riabilitare ladri e assassini, come si legge non soltanto nei vangeli, ma anche in diverse fiabe popolari europee.
Guido Dall’Olio (Ferrara, 1963) insegna Storia Moderna all’Università di Urbino Carlo Bo. Si occupa soprattutto di storia religiosa della prima età moderna. Oltre a numerosi saggi e articoli, ha pubblicato i volumi Eretici e inquisitori nella Bologna del Cinquecento (Bologna, 1999), Martin Lutero (Roma, 2013) e il manuale universitario Storia moderna. I temi e le fonti (Roma, 2017).